Per una teologia della gioia

Tempo addietro un mio amico si diceva disturbato dal fatto che la religione cattolica mettesse al primo posto la sofferenza: cristi sanguinanti, madonne piangenti, santi che si fustigavano, cilici e penitenze.

La madre di Giacomo Leopardi, la contessa Adelaide Antici, può essere portata ad esempio di una visione terrificante di Dio. Era una sorta di fondamentalista cristiana, una madre anaffettiva che gioiva delle sofferenze altrui. Il nostro Poeta non ricevette amore da lei e, nel celebre ritratto della «madre di famiglia» (Zibaldone, 25 novembre 1820), la proporrà quale modello del contrasto tra la religione cristiana e la natura, e tra quest’ultima e la barbarie:

 

 

«Quanto […]  la  religion  cristiana  sia  contraria  alla  natura,  […] si può vedere da questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl’invidiava intimamente e sinceramente, perché questi erano volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli. […] Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. […] Le malattie, le morti più compassionevoli de‟  giovanetti estinti nel fior dell’età, fra le più belle  speranze,  col  maggior   danno   delle   famiglie   o del pubblico non la toccavano in verun modo. Perché diceva che non importa l’età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano rassegnazione. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea. […] Questa donna era stata così ridotta dalla sola religione. Ora questo che altro è se non barbarie?».

 

Ma è questo la nostra fede? Dio gode della sofferenza degli uomini? Ci manda croci e patimenti? Assolutamente no. Chi dovesse pensarla in questo modo bestemmierebbe e sarebbe ben lontano dallo Spirito di Dio, avrebbe una concezione distorta e mortifera della nostra fede.

D’altronde, Gesù non avrebbe risanato alcuno se il Padre fosse stato una divinità terrificante. Lui, invece, simile al Padre, guariva anima e corpo, tutto l’essere; aveva compassione di quanti soffrivano. Gli dei pagani fulminano e perseguitano gli uomini, che sono alla loro mercé; il Dio di Gesù è diametralmente altro, risana, consola, ama.

Potremmo chiamare padre un dio che crocifigge i suoi figli e gioisce delle loro tribolazioni? No, non potremmo. Sarebbe del tutto illogico, irrazionale, demenziale.

Nel Vangelo di Matteo (7, 7-12) è scritto chiaramente: «Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!».

Una certa teologia sguazza nella sofferenza e nella tristezza. È carente di gioia, letizia, pace. Non consola né rianima. Lo Spirito Santo è assente. Sono assenti i suoi frutti: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo (v. San Paolo ai Galati, 5-22).

Una religione che fa di Dio un persecutore non è cristiana, è diabolica. I frutti del diavolo si radicano fondamentalmente nel terreno inquinato dell’egoismo e della morte come assenza di pace e gioia. L’egoismo conduce alla seconda morte, quella eterna. Le tentazioni, se assecondate, non recano pace ma tristezza. Sulle prima si ha la sensazione di aver toccato il cielo con un dito ma poi ci si accorge dell’inganno, si precipita in un abisso di disperazione da cui non si esce facilmente se non seguendo un percorso di conversione.

Se l’uomo che si è rivolto al signore di questo mondo prende coscienza della sua miseria e del suo peccato, può muoversi verso Dio, la cui pace non è della stessa natura e durata di quella che dà il mondo con i suoi idoli e piaceri effimeri. Il diavolo svuota l’uomo, Dio lo riempie col Suo amore e il Suo perdono. Dio ci rimette a nuovo; Satana ci copre di stracci e di miserie morali. Di qui nasce l’inquietudine dell’uomo, dal seguire il pifferaio del male, dall’accoglierne le seduzioni, pensando di trovare ristoro. Ma così non è, e la tristezza che sopravviene ne è la cartina di tornasole, come lo sono l’assenza di speranza, l’eclissarsi della bellezza e della meraviglia, il vuoto interiore.

Il nostro sguardo parla dello stato di salute delle nostre anime.

Bene, è chiaro che occorre puntare a una teologia della gioia perché Dio è gioia, non è sofferenza. Le omelie dovrebbero soffermarsi sulla Sua vera natura, non già sulle contraffazioni che allontanano la gente dalla Chiesa. Chi si è inventato un dio arcigno e intollerante, un dio che porta il conto dei nostri peccati per punirci severamente e inviarci croci, va messo garbatamente alla porta. Quel dio non è mai esistito, è una proiezione delle congetture e dei deliri dell’uomo, dei suoi vissuti esistenziali.

Quindi, cari lettori e lettrici, scrolliamoci di dosso la polvere delle mistificazioni e rivestiamoci di gioia. Il nostro Dio sorride, gioca, scherza, non è affatto quell’essere mesto, terribile e nemico dell’uomo che, purtroppo, ci è stato inculcato, causando sofferenze indicibili, danni spesso irreparabili e la rovina di molte esistenze.

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