Prediamo spunto per questa riflessione da un testo scritto dal Cardinale Tomāš Špìdlík (1919 – 2010), L’arte di purificare il cuore (Lipa, Roma, 2022), in cui un capitolo è dedicato agli otto pensieri cattivi. L’Autore si rifà all’elenco degli otto “pensieri generici”, che poi divenne tradizionale, di Evagrio Pontico.
Nel suo Trattato pratico Evagrio lo propone in questi termini: «Otto sono in tutto i pensieri generici che comprendono tutti i pensieri [cattivi]: il primo è quello della golosità, poi quello della fornicazione, il terzo quello dell’avarizia, il quarto quello della tristezza, il quinto quello della collera, il sesto quello dell’accidia, il settimo quello della vanagloria, l’ottavo quello dell’orgoglio».
È identico a quello dei sette vizi capitali, però San Gregorio Magno ne mutò l’ordine, considerando come un unico vizio vanagloria e orgoglio.
Passiamoli in rapida rassegna.
La golosità, scrive Cassiano, ci suggerisce di mangiare prima del tempo stabilito, ci induce a mangiare troppo e ci fa ricercare i cibi non secondo la loro vera utilità, ma per soddisfare la ghiottoneria.
Quanto alla fornicazione, la Chiesa ribadisce che «la concupiscenza viene dal peccato e spinge verso il peccato, ma essa non è peccato». Non essere tentati nella castità è un dono eccezionale di Dio. Quando siamo tentati a commettere atti immorali, quando la fantasia ci solletica con immagini impure, dobbiamo ricorrere alla volontà e allontanare la suggestione. Vi sono dei rimedi raccomandati per aiutarci ad allontanare da noi questo vizio: la custodia dei sensi, la preghiera, il lavoro costante.
Gli avari ripongono eccessiva fiducia nel loro denaro, dimenticano Dio, sono duri verso il prossimo. All’infuori dei soldi non hanno interessi, né culturali né di altro tipo legati a una sana distrazione. Custodiscono il loro tesoro sulla terra e non in cielo (cf Mt 6, 19 ss).
Se ci assale la tristezza per la vita come tale, per la compagnia degli altri, per il fatto che siamo soli ecc, c’è sempre sfiducia nella Provvidenza di Dio e nella Sua opera. Gli autori monastici la considerano come il peggior nemico della vita spirituale. Vi sono vari tipi di tristezza. Uno di essi è la tristezza per il bene di cui gode un altro uomo, che definiamo invidia. Per San Giovanni Crisostomo, l’invidioso è peggiore dell’avaro. Infatti, se quest’ultimo si accontenta di quanto possiede, l’invidioso si danna affinché gli altri non possiedano niente.
L’ira può essere giusta o ingiusta. È giusta solo se conduce al bene, alla sconfitta del male, e quindi va a beneficio del prossimo, non a suo danno. L’immagine dell’ira giusta è Gesù che scaccia i venditori dal tempio (Mc 11, 15 ss; Gv 2, 14 ss). L’ira ingiusta è quella che nasce dall’odio e dal desiderio di vendetta. Spesso l’ira si manifesta con scoppi di sentimenti che sono più forti del sano giudizio. Un uomo così è, secondo San Giovanni Climaco, un folle, un epilettico volontario. Molto più pericolosa è l’ira che residua nell’anima dopo l’esplosione dei sentimenti. Allora ci si rifiuta di perdonare. Per San Gregorio di Nissa, un uomo che si comporta in tal modo si separa dal regno di Dio. L’ira guarisce con le virtù a essa contrarie: mitezza, pazienza, fede nella Provvidenza.
A riguardo dell’accidia, Ludovico Da Ponte ne enumera nove manifestazioni: 1) una paura esagerata degli ostacoli che si possono incontrare; 2) l’avversione a tutto ciò che costa fatica; 3) la negligenza nell’osservare i comandamenti, l’ordine, le regole; 4) l’instabilità nel bene, nel mantenimento dei propositi; 5) l’incapacità di resistere alle tentazioni; 6) l’avversione verso coloro che sono zelanti; 7) la perdita di tempo prezioso; 8) l’anarchia dei sensi; 9) la negligenza nell’osservanza dei doveri del proprio stato.
Il pigro nasconde i suoi talenti nella terra (Mt 25, 25 ss). Non desidera essere né troppo buono né troppo cattivo, e perciò a lui si applicano le parole: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo, né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3, 15-16).
Veniamo infine alla vanità e alla superbia. Secondo gli asceti, l’unica cosa che merita la gloria è la grazia, la partecipazione alla vita di Dio. Il cristiano crede che essa sia un dono di Dio, non la attribuisce a sé. L’immagine classica della superbia è il fariseo che prega: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri e neppure come questo pubblicano» (Lc 18, 11). Il superbo esige ammirazione e venerazione per ciò che, senza meriti, ha ricevuto da Dio.